Tra le previsioni contenute nel Decreto Rilancio (D.L. 19 maggio 2020, n. 34) per sostenere il sistema imprenditoriale italiano vi è il potenziamento dei PIR (Piani Individuali di risparmio). La misura, che accoglie una recente proposta di Assogestioni, ha come obiettivo incentivare gli investimenti in economia reale, aumentando la capacità di tali strumenti di convogliare il risparmio privato verso il mondo delle imprese, in particolare PMI non quotate, grazie a una nuova tipologia di PIR cd. alternativi.
Prima di entrare nel merito di cosa sono e cosa comportano questi “nuovi” PIR alternativi, facciamo un passo indietro.
PIR: definizione ed evoluzione normativa
I PIR sono stati introdotti dalla Legge di Bilancio 2017 con l’obiettivo, appunto, di indirizzare il risparmio privato verso le PMI italiane a fronte di benefici fiscali: esenzione delle imposte sui redditi per 5 anni e esenzione dall’imposta di successione per gli investimenti relativi. Nella pratica, quando si parla di PIR si parla principalmente di fondi (ma giuridicamente possono anche assumere la forma di conti titoli o gestioni patrimoniali) che, sulla base della normativa originaria, investono almeno il 70% del capitale in imprese con sede fiscale in Italia o in Stati dell’Unione europea con stabile organizzazione in Italia. Di questa quota, almeno il 30% (ovvero, il 21% del totale) deve inoltre essere investito in strumenti emessi da imprese non inserite nell’indice FTSE MIB di Borsa Italiana.
I PIR si rivolgono alle persone fisiche, e ogni singolo individuo può sottoscriverne solo uno. A ulteriore tutela, la composizione del fondo è soggetta a un limite massino di concentrazione del 10% per ogni singolo emittente di strumenti finanziari.
I PIR 2.0
La Legge di Bilancio 2019 e il relativo decreto attuativo del 30 aprile hanno successivamente stabilito per i PIR nati dopo il 01.01.2019 (meglio noti come PIR 2.0) un vincolo di investimento su AIM e Venture Capital del 3,5% ciascuno (5% del 70% di cui sopra).
Come PMI ammissibili si intendono quelle che, nell’accezione comunitaria arrivano ad avere 250 dipendenti, un fatturato massimo di EUR 50M oppure un totale di bilancio annuo che non superi EUR 43M. Non devono inoltre aver ricevuto risorse finanziarie per una somma superiore a EUR 15M, non devono essere quotate sui mercati regolamentati e devono soddisfare almeno una delle seguenti condizioni:
- non aver operato in alcun mercato;
- devono essere passati meno di 7 anni dalla prima vendita commerciale su un qualsiasi mercato;
- necessitano di un investimento iniziale in capitale di rischio superiore al 50% del fatturato medio degli ultimi cinque anni.
La legge prevede infine che sia possibile acquistare quote o azioni di una PMI non quotata anche da un investitore precedente, ma solo con un apporto in parallelo di nuovo capitale pari almeno al 50% dell’ammontare complessivo dell’investimento.
Alla data di entrata in vigore della norma, stime Milano Finanza parlavano di circa 70 imprese ammissibili. Nella realtà, gli operatori si sono da subito mostrati piuttosto perplessi, data l’introduzione di vincoli d’investimento in strumenti poco compatibili con la logica dei fondi aperti, che da regolamento, non possono detenere più del 10% in attività illiquide.
Le stime iniziali parlavano di circa EUR 70Mld nei primi 5 anni di vita dello strumento. Nei primi 2 anni di vita i PIR hanno raccolto appena EUR 18,7Mld, cifra per la quale bisogna ringraziare anche l’andamento positivo dei mercati, visto che la raccolta netta è andata in negativo già dal primo trimestre del 2019. Più che la frenata della raccolta (e la parallela mancata costituzione di nuovi fondi), a preoccupare è l’impatto effettivo che i PIR hanno avuto per le PMI italiane. Secondo dati Banca d’Italia riferiti ai fondi PIR di diritto italiano, a fine 2018 l’investimento in azioni e obbligazioni di imprese non finanziarie era pari al 51,8% (2% la quota media calcolata sui fondi non PIR). Tuttavia, solo il 2,1% è andato a beneficio delle PMI.
Il correttivo di fine 2019
La notevole contrazione di mercato seguita all’introduzione delle nuove regole ha portato il legislatore ad intervenire nuovamente sulla disciplina dei PIR. Il D.L. 124/2019 ha rimosso i vincoli su AIM e Venture capital, introducendo la soglia unica del 5% del 70% complessivo da investire in strumenti finanziari di imprese non inserite negli indici FTSE MIB e FTSE Italia Mid Cap di Borsa Italiana (o indici equivalenti di altri mercati regolamentati). Anche in questo caso le stime preliminari si mostravano ottimiste: EUR 12Mld di raccolta nel periodo 2020-2022 (Intermonte), un incremento medio del numero di quotazioni annue attorno al +30% e una crescita della dimensione media della raccolta in IPO, da EUR 5,9M nel 2019 a EUR 10M nel 2022 (IR Top Consulting).
Il mondo dei PIR oggi
Secondo gli ultimi dati Assogestioni, a fine marzo 2020 risultano 71 fondi aperti PIR-compliant (di cui 44 costituiti dopo il dicembre 2016), con volume complessivo di asset under management pari a EUR 15,1Mld.
Il dato va obiettivamente letto alla luce della dura crisi che ha colpito l’economia italiana durante l’emergenza Covid-19, e di fatto la raccolta netta è sì ancora in negativo, ma “solo” di EUR 234M. Ciò non toglie che occorrano ulteriori sforzi, e che le modifiche introdotte dall’art. 136 del Decreto Rilancio, basate su recenti proposte Assogestioni, siano senza dubbio importanti. Come anticipato, l’obiettivo è incentivare gli investimenti in economia reale, specie per quanto riguarda le PMI non quotate, potenziando la capacità dei PIR di fornire liquidità al sistema imprenditoriale italiano.
Partiamo dal cuore del problema. Per evitare una eccessiva esposizione al rischio dei risparmiatori occorrono portafogli liquidi. Fornire supporto concreto alle imprese di dimensioni minori richiede e implica per definizione portafogli meno liquidi. La soluzione: un secondo PIR, da affiancare al PIR ordinario, con focus PMI e pensato per investitori maggiormente patrimonializzati, maggiormente in grado di comprendere strumenti più rischiosi e complessi, e con un orizzonte di investimento di lungo periodo.
PIR tradizionali e PIR alternativi: che differenza c'è?
I “nuovi” PIR alternativi introdotto dal Decreto Rilancio sono dunque uno strumento complementare ai PIR tradizionali, a sostegno dell’economia reale. Rispetto ai PIR tradizionali, i PIR alternativi sono caratterizzati da:
- vincoli di investimento più specifici: per 2/3 dell’anno almeno il 70% deve essere investito, in via diretta o indiretta, in strumenti finanziari (anche non negoziati in mercati regolamentati o in sistemi multilaterali di negoziazione) di imprese italiane non appartenenti agli indici FTSE MIB e FTSE Italia Mid Cap;
- classe più ampia di strumenti: oltre che in strumenti finanziari, si può investire anche in prestiti erogati a queste stesse PMI o in loro crediti;
- maggiore beneficio fiscale: la defiscalizzazione sulle plusvalenze è ampliata fino a EUR 150k all’anno per dieci anni (per un totale dunque di EUR 1,5M), rispetto ai 30k all’anno per cinque anni dei PIR tradizionali; su questo punto è intervenuto successivamente il D.L. 104/2020 (cd. Decreto Agosto), che ha elevato a EUR 300k il limite di investimento annuo, fermo restando l'impegno massimo di EUR 1,5M;
- maggiore capacità di investimento: il vincolo di concentrazione s singolo emittente è elevato al 20% (resta comunque al 10% quello sui PIR tradizionali costituiti prima del 2020);
- più ampia categoria di intermediari: i nuovi PIR possono essere costituiti, oltre che tramite OICR aperti e contratti di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione, anche tramite FIA, quali, Eltif, fondi di PE, fondi di private debt e fondi di credito.
Si tratta quindi di convogliare una quota maggiore di risparmio privato vero le PMI non solo in via diretta, ma anche in via indiretta, facendo leva sul sostegno che può essere fornito dagli investitori istituzionali di tipo previdenziale (ovvero, i fondi pensione e casse), che già in base al D.L. 124/2019 potevano essere titolari di più di un PIR, sebbene entro la soglia del 10% del patrimonio ciascuno.
Il ruolo del fintech
Perché questi nuovi PIR prendano effettivamente piede e divengano una valida opzione di investimento occorre sistemare un ultimo tassello: quello della costruzione dei portafogli. Per scongiurare esposizioni eccessivamente rischiose servono strumenti di analisi efficienti ed efficaci, che garantiscano una valutazione della solidità aziendale affidabile, a un costo sostenibile.
Le società appartenenti al FTSE MIB sono 40, e altre 60 rientrano nel FTSE Italia Mid Cap. Se consideriamo la totalità delle società quotate in Borsa su MTA e AIM (che pur non appartenendo ai due indici principali devono comunque sottostare a stringenti obblighi informativi), sfioriamo le 400 unità. Tralasciando le ditte individuali e le imprese con meno di 10 addetti, restano da scandagliare circa 200.000 PMI. Il fintech ha le competenze per farlo. Bene, e in tempi rapidi.